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DANTE DI-VINO III PARTE

DANTEDI'


Ok ci sono! Si, lo so, sono assente da un pò, ma non potete immaginare la fatica che faccio a star dietro a tutto, tra lo spegnere la sveglia alle otto e trenta, ergo all'alba, prendere il telecomando dal tavolino di fronte il divano per evitare di vedere "Il Segreto", mettere la giusta quantità di nutella sulle fette biscottate, non una volta, ben tre volte al giorno e scegliere quale è il vino migliore tra uno Château Léoville Barton St.-Julien 2016 ed un Roederer Estate Brut Anderson Valley L'Ermitage 2012, non so più come destreggiarmi! Ma basta parlare di me, anche se mi piacerebbe sia chiaro, passiamo al nostro caro Dante. L'idea iniziale era quella di parlare di Beatrice, l'amore, la musa del poeta, ma, considerato il giorno, ho optato per altro. La cara Bea dovrà aspettare, dunque, perché ho preso la superba decisione di parlarvi delle rime del poeta che preferisco. Ritengo sia il modo migliore, per me, per onorarlo! Prego!

Cercherò di non dilungarmi, ma non posso promettere nulla, ovviamente a meno che mia madre non decida di seguire un corso accelerato di cucina e preparare i tanto agognati pancake. Ahimè nutro seri, serissimi dubbi, quindi mettiamoci comodi, prendiamo un bicchiere di vino ed iniziamo questo viaggio insieme. 

In pole position ci piazzo una delle mie rime preferite, precisamente la rima numero 103, che fa parte delle cosiddette rime petrose, dedicate ad una donna di pietra, aspra e dura. Lo si deve ammettere, la sfortuna di Dante in quanto a donne è sorprendente! La rima mette in scena un doppio combattimento: tra Dante e la donna di pietra e tra il poeta e Amore. Per chi non lo sapesse è sempre il poeta a soccombere, of course! Anche se, in questo caso, nell'ultima parte spunta uno sviluppo inaspettato della storia: il poeta vuole provocare tante sofferenze alla donna quanto lei ne ha provocate a lui, insomma vuole spezzarle il cuore.

Così nel mio parlar voglio esser aspro com’è ne li atti questa bella petra, la quale ognora impetra maggior durezza e più natura cruda, e veste sua persona d’un dïaspro tal che per lui, o perch’ ella s’arretra, non esce di faretra saetta che già mai la colga ignuda: ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda né si dilunghi dà colpi mortali, che, com’avesser ali, giungono altrui e spezzan ciascun’arme; sì ch’io non so da lei né posso atarme. Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi né loco che dal suo viso m’asconda; ché, come fior di fronda, così de la mia mente tien la cima: cotanto del mio mal par che si prezzi quanto legno di mar che non lieva onda; e ’l peso che m’affonda  è tal che non potrebbe adequar rima. Ahi angosciosa e dispietata lima che sordamente la mia vita scemi, perché non ti ritemi sì di rodermi il core a scorza a scorza, com’io di dire altrui chi ti dà forza? Ché più mi triema il cor qualora io penso di lei in parte ov’altri li occhi induca, per tema non traluca lo mio penser di fuor sì che si scopra, ch’io non fo de la morte, che ogni senso co li denti d’Amor già mi manduca; ciò è che ’l pensier bruca  la lor vertù, sì che n’allenta l’opra. E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra con quella spada ond’elli ancise Dido, Amore, a cui io grido merzé chiamando, e umilmente il priego; ed el d’ogni merzé par messo al niego. Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida la debole mia vita, esto perverso, che disteso a riverso mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco: allor mi surgon ne la mente strida; e ’l sangue, ch’è per le vene disperso, fuggendo corre verso lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco. Elli mi fiede sotto il braccio manco sì forte, che ’l dolor nel cor rimbalza; allor dico: «S’ elli alza un’altra volta, Morte m’avrà chiuso prima che ’l colpo sia disceso giuso». Così vedess’io lui fender per mezzo lo core a la crudele che ’l mio squatra! poi non mi sarebb’ atra la morte, ov’io per sua bellezza corro: ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo questa scherana micidiale e latra. Omé, perché non latra per me, com’io per lei, nel caldo borro ché tosto griderei: «Io vi soccorro»; e fare’l volentier, sì come quelli che ne’ biondi capelli ch’Amor per consumarmi increspa e dora metterei mano, e piacere’le allora. S’io avessi le belle trecce prese, che fatte son per me scudiscio e ferza, pigliandole anzi terza, con esse passerei vespero e squille; e non sarei pietoso né cortese, anzi farei com’ orso quando scherza; e se Amor me ne sferza, io mi vendicherei di più di mille. Ancor ne li occhi, ond’ escon le faville che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso, guarderei presso e fiso, per vendicar lo fuggir che mi face; e poi le renderei con amor pace. Canzon, vattene dritto a quella donna che m’ha ferito il core e che m’invola quello ond’io ho più gola, e dàlle per lo cor d’una saetta: ché bell’onor s’acquista in far vendetta.


Al secondo posto troviamo "Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io", sonetto composto in forma di plazer il cui tema principale è l'amicizia. Dante immagina di trovarsi su un vasel con i suoi amici, Guido Cavalcanti e Lapo Gianni (anche loro poeti, mi pare scontato precisarlo!). Il sonetto riprende il souhait provenzale che riguarda sogni irrealizzabili, ovviamente il pane quotidiano di Dante, unito ai temi del ciclo arturiano, all'aurea fantastica che riecheggia nelle storie di re Artù e Merlino. Dante auspica un viaggio che segue il desiderio comune ai tre di avventura e amore, ovviamente evanescente, sia chiaro!

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio, sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento di stare insieme crescesse ‘l disio. E monna Vanna e monna Lagia poi Con quella ch’è sul numer de le trenta con noi ponesse il buono incantatore: e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuno di lor fosse contenta, sì come i’ credo che saremmo noi.

 

Il terzo posto è dedicato, invece, ad un meraviglioso sonetto della "Vita Nuova" in cui il poeta medita sulla grandezza dell'esperienza amorosa, ma non c'è bisogno che vi spieghi il sonetto perché, in realtà, ci pensa lo stesso Dante.

Amore e 'l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dittare pone, e così esser l'un senza l'altro osa com'alma razional sanza ragione. Falli natura quand'è amorosa, Amor per sire e 'l cor per sua magione, dentro la qual dormendo si riposa tal volta poca e tal lunga stagione. Bieltate appare in saggia donna poi, che piace a li occhi sì, che dentro al core nasce un disio de la cosa piacente; e tanto dura talora in costui che fa svegliar lo spirito d'Amore. E simil face in donna omo valente.

Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico di lui in quanto è in potenzia; ne la seconda dico di lui in quanto di potenzia si riduce in atto. La seconda comincia quivi: Bieltate appare. La prima si divide in due: ne la prima dico in che suggetto sia questa potenzia; ne la seconda dico sì come questo suggetto e questa potenzia siano produtti in essere, e come l’uno guarda l’altro come forma materia. La seconda comincia quivi: Falli natura. Poscia quando dico: Bieltate appare, dico come questa potenzia si riduce in atto; e prima come si riduce in uomo, poi come si riduce in donna, quivi: E simil face in donna.


Al quarto posto non posso non citare uno dei passi più belli della "Divina Commedia", almeno secondo il mio modesto parere.  Sto parlando, naturalmente, dell'incipit del Paradiso in cui il poeta chiede aiuto ad Apollo in quanto quello delle sole Muse non è più sufficiente a ricordare, tenere a mente e riportare ciò che ha visto in Paradiso. In realtà la scelta di questo proemio è dovuta ad una insana e alquanto delirante passione della sottoscritta  riguardo le parole, quelle strane, quelle che non si sentono tutti i giorni e, nel caso specifico, al verso 70 del I canto della terza cantica troviamo il lemma trasumanar che significa uscire dai limiti della ragione, andare oltre le normali capacità dell'uomo. Adoro!

Ma bando alle ciance, ecco a voi l'incipit del Paradiso scritto a memoria, sia chiaro, niente copia e incolla per me questa volta! Si lo so ho problemi, anche mia madre mi dice che non è normale conoscere la maggior parte della Divina Commedia a memoria. Ma che ci possi fare?! C'è chi impara canzoni, chi poesie, io, dall'alto, o dal basso (dipende dai punti di vista) della mia psicosi, imparo le opere di Dante.

La gloria di colui che tutto move per l'universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove. Nel ciel che più de la sua luce prende fu' io, e vidi cose che ridire nè sa nè può chi di là sù discende; perchè appressando sé al suo disire nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire. Veramente quant'io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarà ora materia del mio canto. O buono Apollo, a l'ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso, come dimandi a dar l'amato alloro. Infino a qui l'un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m'è uopo intrar ne l'aringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsia traesti de la vagina de le membra sue. O divina virtù, se mi ti presti tanto che l'ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, vedra' mi al piè del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie che la materia e tu mi farai degno. Si rade volte, padre, se ne coglie per triunfare o cesare o poeta, colpa e vergogna de l'umane voglie, che parturir letizia in su la lieta delfica deità dovria la fronda peneia, quando alcun di sè asseta. Poca favilla gran fiamma seconda: forse di retro a me con miglior voci si pregherà perchè Cirra risponda.........Beatrice tutta n l'etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote. Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si fè Glauco nel gustar de l'erba che 'l fe consorto in mar de li altri dèi. Trasumanar significa per verba non si poria; però l'essemplo basti a cui esperienza grazia serba. S'i era sol di me quel che creasti novellamente, amor che 'l ciel governi, tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti. Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso con l'armonia che temperi e discerni, parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso.


All'ultimo posto, non per importanza sia messo agli atti, ci piazzo la Tenzone tra Dante e Forese Donati, che riprende il sistema duecentesco della poesia comica e giocosa. Il sonetto è inserito in un insieme di altri sonetti in cui i due si scambiano accuse e insulti feroci e spesso osceni. Quindi Dante sa anche essere spiritoso! Chiariamo che moduli della vituperatio e del rinfaccio si ritrovano anche nella "Divina Commedia", precisamente nell'Inferno quando viene messo in scena uno scambio di accuse e di insulti tra Mastro Adamo e il greco Simone. Il gruppo di sonetti scambiati con Forese Donati ha un linguaggio duro, spesso allusivo: Dante, ad esempio, rinfaccia all'amico una scarsa prestanza sessuale, tanto che la moglie è afflitta da tosse, lo accusa di povertà, furto e dell'incerta paternità come si vede da questo superbo sonetto parecchio divertente, in cui lo accusa altresì di essere goloso e ladro. Adoro!

Bicci, novel, figliuol di non so cui, s'i non ne domandasse monna Tessa, giù per la gola tanta roba hai messa. ch'a forza ti convien torre l'altrui. E già la gente si guarda da lui, chi ha borsa a lato, là dov'è s'appressa, dicendo:"Questi c'ha la faccia fessa è piuvico ladron negli atti sui". E tal giace per lui nel letto tristo, per tema non sia preso a lo 'molare, che gli appartien quanto Gioseppo a Cristo. Di Bicci e de' fratei posso contare che, per lo sangue lor, del male acquisto sanno a lor donne buon cognati stare. 




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