Recensione/Mini Guida "I Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni
Libro: I Promessi Sposi
Autore: Alessandro Manzoni
Prima pubblicazione: 15 giugno 1827
Copertina flessibile: tra le 600 e le 900 pagine, dipende dall'edizione
Questa
recensione è indubbiamente peculiare, ma ho deciso che, di tanto in tanto,
quando avrò tempo s’intende, scriverò la recensione di un’opera intramontabile
della letteratura. È giusto precisare che tali opere, per ovvi motivi, non
necessitano di alcuna recensione, quindi in realtà, le mie saranno mini guide (giuro
molto mini onde evitare attacchi narcolettici ai più se non a tutti!). Mi pare corretto dare un po' di spazio anche ai grandi autori che,
poverini, con immane fatica hanno gettato le basi della letteratura e hanno
dato la possibilità a tutti noi di scrivere e di leggere.
Il primo
testo di cui ho deciso di occuparmi è il romanzo dei romanzi, il top del top
della summenzionata categoria, il big bang della narrazione, l’arco da cui è
scoccata la freccia delle opere narrative: “I Promessi Sposi”. Il romanzo per
eccellenza, anche l’unico in realtà del povero, sfigatissimo Alessandro
Manzoni. Beh sì perché, per chi non lo sapesse, Alessandro è davvero il re
degli sfigati, della serie hastag mai una
gioia: innanzitutto è appropriato dire che, al tempo, giravano voci
riguardo la paternità del povero ragazzo che, sebbene portasse il cognome dei
Manzoni, probabilmente era stato concepito dalla madre, Giulia Beccaria con
l’amante Giovanni Verri. Diciamo che la cara Giulietta non era proprio una
santarellina! Il povero probabile bastardino aveva sposato Enrichetta Blondel
quando lei aveva solo 16 anni ed avevano avuto ben dieci figli, ma di questi
solo due erano sopravvissuti ai genitori, la stessa Enrichetta era morta
abbastanza giovane. Non contenta, la tanto da lui amata Provvidenza gli aveva
tolto anche la seconda moglie, Teresa. Insomma una vita all’insegna del lutto
la sua! Si facciano da parte Dante, Petrarca, Boccaccio e gli altri, qui stiamo
parlando di sfiga allo stato puro! Senza contare i non pochi problemini
psicologici e le crisi nervose che hanno accompagnato lo scrittore per tutta la
vita! Povero, povero Alessandrino! Ti sono davvero vicina! Manzoni, prendendo
spunto dai suoi predecessori, aveva sviluppato un disturbo ossessivo-compulsivo
per la lingua; non è un caso che la sua teoria linguistica sia quella adoperata
ancora oggi: Alessandro sosteneva l’uso del fiorentino parlato come lingua
nazionale e per questo revisionò più volte la sua opera più famosa. Chiedo
venia per l’excursus forse un po’ lungo, ma almeno ora sappiamo che la nostra
lingua si deve a Manzoni, scusate se è poco!
Tentiamo
innanzitutto di capire perché il caro Alessandro ha speso così tanti anni della
sua vita a scrivere i “Promessi Sposi”, di certo aveva altre cose da fare,
tipo organizzare provini per nuove consorti, considerata la sfiga colossale che
sembrava perseguitarlo oppure presenziare con maggiore pathos ai festeggiamenti in piazza per il matrimonio di Napoleone Bonaparte con Maria Luisa d’Austria o
sciocchezzuole del genere, invece no, lui si mette seduto ed inizia a scrivere
il suo capolavoro.
È doveroso
sapere che Alessandro Manzoni appartiene alla corrente culturale del Romanticismo, perlomeno se viene fuori
una domanda di questo genere durante qualche quiz sapremo cosa rispondere.
Questa volta non ho potuto fare il copia e
incolla della sinossi quindi, mi sono rimboccata le maniche ed ho riassunto il
romanzo. Tanto Manzoni è andato, quindi non c’è bisogno che mi senta in colpa
per le tanto agognate royalty.
Il
riassunto del romanzo è abbastanza lungo e complicato, ma io ho cercato di
scrivere il minimo sindacale. Innanzitutto dobbiamo specificare che il caro,
intelligentissimo Alessandro mette le mani avanti, si toglie da qualsiasi
impiccio scrivendo che la storia che andrà a narrare non è di sua invenzione,
ma l’ha trovata in un manoscritto del Seicento da cui è rimasto piacevolmente
colpito.
Allora
i due promessi sposi sono Renzo
Tramaglino e Lucia Mondella, due poveri montanari
sfigati che abitano in un paese vicino al lago di Como. Ovviamente per nessun
motivo al mondo mancherei di citare il famosissimo incipit del romanzo: “Quel ramo del lago di Como che volge a
mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a
seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien quasi a un tratto, a
restringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra
e un’ampia costiera dall’altra parte…”.
È il
7 Novembre dell’anno 1628 ed il caro prete Don Abbondio sta camminando
tranquillamente quando si imbatte nei bravi (non tanto bravi) di Don Rodrigo,
il signorotto del luogo. Come lo stesso Manzoni scrive “Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era
cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover
accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui”. E’ si perché il caro
prete non “non nobile, non ricco,
coraggioso ancor meno”, non era mica così felice della cosa, ancora meno
dopo le famosissime parole che i bravi gli rivolgono “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”. Eh già, il
signorotto vuole Lucia e nessuno deve mettersi in mezzo. Lo so, questa
situazione non piace nemmeno a me, ma le cose nel Seicento erano parecchio
diverse da ora, per cui era lecito decidere della vita degli altri.
Il
povero don Abbondio non può far altro che accettare l’offerta e andare avanti, a differenza del promesso sposo, il caro
Renzo, che non può proprio gradire la situazione per cui, dopo aver saputo che
dietro siffatto divieto c’è Don Rodrigo pensa giustamente di rivolgersi alla
legge, precisamente al dottor Azzecca-garbugli, non proprio uno su cui si possa
fare affidamento. L’avvocato in questione in un primo momento sembra essere
disposto ad aiutare il malcapitato “purchè
non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi
d’impiccio: con un po' di spesa, intendiamoci”, ma quando scopre che è lui
l’offeso e Don Rodrigo colui che offende cambia completamente i sui propositi “eh via! Che mi venite a rompere il capo con
queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar
le parole.” ovviamente spaventato a morte decide di cacciare il povero
promesso sposo. Nel mentre anche la
povera Lucia è stata messa al corrente della spiacevole situazione e qui entra
in scena il suo confessore, padre Cristoforo, un uomo ligio, buono e
coraggioso. Era ora! A questo punto Alessandro, che ama divagare, narra la
storia di padre Cristoforo, che non sto a ripetere perché se non avete letto il
romanzo vi tolgo tutto il divertimento, si fa per dire! Per chi fosse curioso,
la sua storia è ampliamente descritta da Alessandro nel capitolo numero IV.
Arriviamo
alla cosiddetta notte degli imbrogli e
dei sotterfugi: la madre di Lucia, Agnese, che ne sa una più del diavolo, partorisce
la grandiosa idea di infinocchiare don Abbondio. Davanti alla legge, per essere
sposati basta solo che Renzo e Lucia si dichiarino marito e moglie di fronte ad
un paio di testimoni e al prete, ma questa brillante idea va a monte, così come
fallisce il tentativo da parte dei bravi di rapire Lucia quella stessa notte. I
due poveri promessi sposi sono
costretti a fuggire dal paese per cui interviene ancora una volta quel santo di
padre Cristoforo che indirizza la mancata sposa presso alcuni monaci cappuccini
di Monza e Renzo dai cappuccini di Milano.
Nella
città Lombarda, Lucia incontra niente poco di meno che Gertrude, la vip di
tutte le monache conosciuta con l’appellativo di Signora (anche la sua storia viene più che ampliamente raccontata
da Manzoni, ma a noi, che ci stiamo occupando di una mini guida barra
recensione non interessa, altrimenti finiremmo per occuparci di una guida
davvero poco mini. Comunque tutta la storia, per chi fosse interessato, si
trova nel capitolo X del romanzo. Il povero Renzo, intanto, si dirige a Milano
e viene coinvolto in una sommossa. Alessandro, che come abbiamo già delineato
più che ampliamente, ama la verità, non manca di narrare la carestia e le
conseguenti insurrezioni; durante una di queste lo sprovveduto Renzo, esaltato
dagli eventi nemmeno fossero una dose di cocaina, si lascia trasportare
improvvisando un comizio e, poiché ubriaco, non si prende neppure la briga di
nascondere il proprio nome ad una spia della polizia. Bene bene, le cose si
stanno facendo sempre più interessanti! Peccato non esistessero gli alcolisti
anonimi altrimenti Renzo sarebbe finito dritto dritto in comunità. Il nostro
Jack Sparrow dei poveri viene arrestato, ma, aiutato dalla folla, riesce a
fuggire e a rifugiarsi presso il cugino Bortolo.
Torniamo
alla povera Lucia che viene rapita da Don Rodrigo con l’aiuto della stronza
patentata (scusate il francesismo), la monaca di Monza e dell’Innominato (un
altro signorotto del luogo) che se la tiene in casa in attesa all’arrivo del
compare Don Rodrigo. Proprio nel castello dell’Innominato accade qualcosa che ribalta
completamente la situazione: la fede della promessa sposa colpisce talmente
tanto il signorotto da portarlo a trascorrere una nottata alquanto tormentata: “la libererò, sì: appena spunta il giorno,
correrò da lei e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare …e la promessa?
E l’impegno? E don Rodrigo? Chi è don Rodrigo?” Beh se non lo sai tu caro
Innominato!
L’uomo
che sembrava essere il peggiore di tutti alla fine aiuta Lucia, la libera e la
consegna al cardinale Borromeo che la tiene al sicuro presso don Ferrante e
donna Prassede. Renzo invece, nel frattempo, si trova a Bergamo sotto lo
pseudonimo di Antonio Rivolta (mai nome fu più consono!). Ora è il momento di
tornare alla verità e alla storia: Alessandro sproloquia un bel po’ sulla
carestia, la guerra, la peste. Quest’ultima trascina via molte vite: i malati
vengono trasportati nel lazzaretto dove i monatti, che sono gli addetti al
trasporto dei cadaveri, assumono il controllo della città saccheggiando,
ricattando e compiendo una lunga serie di violenze.
Ora
si riaffaccia sulla scena don Rodrigo che, come per magia o forse più per
punizione divina, ha la peste. Intanto Renzo che, ovviamente, è sopravvissuto
al contagio torna a Milano per cercare Lucia in quanto gli è giunta voce che la
sua promessa sposa ha fatto voto di castità. Eh Eh non va mica bene! Non si
fanno queste cose Lucia, soprattutto se devi sposarti!
Nel
lazzaretto di Milano Renzo incontra Lucia e don Rodrigo, tradito dal fedele (o
forse sarebbe più coerente dire non fedele!) Griso, il capo dei bravi. Il caro
padre Cristoforo scioglie il voto della sposina, Renzo può rilassarsi ora! I
due promessi tornano a casa mentre una pioggia purificatrice bagna la città e
la libera dalla peste. Don Abbondio, dopo essersi accertato dell’effettiva
morte di don Rodrigo, decide di celebrare il matrimonio ed il ricevimento viene
dato in quello che era stato il castello di don Rodrigo, praticamente oltre al
danno la beffa!
I due
sposi dopo il matrimonio si trasferiscono nel bergamasco e la storia potrebbe
finire con un bel e vissero felici e
contenti, ma non è così. Lucia, tanto attesa, delude le aspettative di
Renzo (e non era meglio mantenere la promessa di castità fatta alla Madonna?!).
Nonostante questo i due hanno comunque dei figli e Renzo apre un filatoio con
il cugino a Bergamo dove i due alla fine si traferiscono.
E
questa è brevemente (per quanto possibile) la storia dei “Promessi Sposi”.
È
giunto il momento di tracciare il profilo dei personaggi del romanzo. Lo so
cosa state pensando, vi assicuro che preferirei fare una colonscopia piuttosto
che analizzare i protagonisti, ma, se non impariamo a conoscerli almeno un pò,
non saremo in grado di comprendere ed accettare le loro scelte, oltretutto lo
dobbiamo al povero Alessandro che si è davvero dato un gran daffare nella costruzione
dei profili soprattutto psicologici dei personaggi, quindi armiamoci di
coraggio e pazienza e proseguiamo!
L’analisi
di Manzoni scende davvero molto ma molto a fondo nei caratteri, soprattutto
morali, dei personaggi e nella loro psicologia (grazie Alessandro!). La sua
narrazione indaga soprattutto sulle contraddizioni del cuore umano, le passioni
e gli affetti. I personaggi però hanno innanzitutto una funzione narrativa,
rappresentano caratteri umani tipici che andiamo ad elencare (prego!): sul
podio, in prima posizione, troviamo Renzo. Il povero promesso sposo è il
personaggio sicuramente più mobile del romanzo, disponibile ed ingenuo, ricco
di curiosità e di spirito di adattamento, ma è anche capace di difendere il
proprio spazio personale. I lettori sono (o dovrebbero essere!) portati a
vedere in lui l’immagine più autentica del cristiano onesto ed aggiungerei un
po’ bonaccione! Alessandro lo descrive in questo modo: “Renzo era un giovane pacifico e alieno al sangue, un giovane schietto
e nemico d’ogni insidia”, innamorato della giovane promessa sposa tanto che
“il pensiero di Lucia quanti pensieri
tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e
così tenuto sicuro…”
Andiamo
avanti ed ecco che sopraggiunge, al secondo posto, la povera Lucia che, invece,
è quasi una immagine stilizzata di femminilità cristiana (ricordiamo che
Manzoni era molto simile alle nostre nonne, religioso oltre l’inverosimile,
probabile capo ultras durante la recita del Santo Rosario!), ma è anche la
donna angelo, colei che illumina, come dice il nome stesso (piccola perla di
saggezza: Lucia dal latino lux, cioè luce,
splendore). È quasi una negazione di tutte le figure femminili della tradizione
letteraria italiana. Il caro scrittore la descrive con le seguenti parole: “…d’una modesta bellezza, rilevata allora e
accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevano sul viso: una gioia
temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di
quand’in quando sul volto delle spose e, senza scompor la bellezza, le dà un
carattere particolare”. Vorrei specificare che la bella, non troppo bella,
promessa sposa viene privata di qualsiasi elemento passionale o erotico, non
dimentichiamo mai la fede di Alessandrino per cui niente sconcezze!
Eccoci
arrivati allo spassoso Don Abbondio:
questo personaggio è il mio preferito, è una figura comica, come lo stesso
Manzoni lo definisce “vaso di terracotta
costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”. La sua
occupazione principale è difendere se stesso, addirittura nella propria scelta
sacerdotale ha privilegiato le ragioni della carne a quelle dello spirito.
G.E.N.I.O. È il debole per eccellenza: “Il
nostro Don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno/Aveva quindi,
assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete” in quanto “procacciarsi di che vivere con qualche agio,
e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più
che sufficienti per una tale scelta”. Adoro questo personaggio!
Don
Rodrigo: cattivo, cattivo! È l’antagonista per eccellenza. E’ un tiranno,
prepotente, buffone e notizia strepitosa: è spagnolo (quasi sicuramente
un’accusa al dominio della Spagna nel periodo manzoniano). Nel romanzo non c’è
una vera e propria descrizione del personaggio, ma la sua presenza sembra
aleggiare dall’inizio del testo. Vorrei precisare che tutta la faccenda del “questo matrimonio non s’ha da fare, né
domani, né mai” nasce da una scommessa del signorotto con il cugino
Attilio. .
Passiamo
al buon Padre Cristoforo, non ho intenzione di narrare la sua complicata storia
passata (come ho già accennato in precedenza la troverete ampliamente descritta
nel romanzo qualora sia vostra intenzione leggerlo!), vorrei piuttosto
soffermarmi sulla descrizione che Manzoni mette a punto: “un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il capo raso,
salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito
cappucinesco/la barba bianca e lunga che gli copriva le guance e il mento, faceva
ancor più risaltare le forme dalla parte superiore del volto, alle quali
un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità
che tolto espressione” questo per darvi un’idea delle descrizioni dello
scrittore che ha ritenuto opportuno elargire ai posteri anche i dettagli meno
significativi che, al contrario, io vi ho rispariamo. Prego!
Padre
Cristoforo è il buono per eccellenza: aiuta tutti, sfugge ad ogni compromesso,
è sempre pronto all’obbedienza e alla sottomissione, rappresenta in tutto e per
tutto come dovrebbe essere la Chiesa di Cristo.
La
Monaca di Monza: due paroline dobbiamo spenderle per questa donna assurda:
Gertrude, la Signora del Convento che
“tra l’altre distinzioni e privilegi che
le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era
anche quello di stare in un quartiere a parte”, praticamente la tizia aveva
molti favoritismi, faceva quello che le passava per la mente senza preoccuparsi
delle conseguenze. È colpa sua se la povera Lucia viene rapita.
Potrei
dilungarmi sui personaggi, ce ne sono ancora molti, ma preferisco sorvolare altrimenti
facciamo notte ed io stasera ho da fare!
Ovviamente non possiamo assolutamente evitare di
spendere due parole per il narratore, almeno questo al povero Alessandrino
glielo dobbiamo dopo tutta la faticaccia che ha fatto per scrivere il romanzo.
Innanzitutto è opportuno specificare che il narratore è onnisciente. Nel
romanzo, però, non abbiamo un unico narratore, dobbiamo ricordare che
Alessandro finge di aver trovato un manoscritto narrato da qualcun altro, per
cui, giusto per renderci le cose agevoli, ci troviamo di fronte ad un triangolo
che comprende l’anonimo (narratore del romanzo originale), il narratore
(Manzoni) e il lettore. Grazie Alessandro! Tu sì che sai come semplificare le
cose!
Il
narratore numero due, Manzoni intendo, chiama spesso in causa il lettore
(grazie mille Alessandro!) facendolo partecipe del dialogo e della storia.
Facciamo un piccolissimo esempio: “Pensino
ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del
poveretto, quello che s’è raccontato” (venticinque? Alessà non starai mica
esagerando?! Anche se poi, nel capitolo IX si ridimensiona un attimo scrivendo
“forse dieci de’ miei lettori”. Va
meglio!).
Frasi
di questo tipo, in realtà, sono utilizzate soprattutto per far partecipe il
lettore della superiorità nei confronti dei fatti.
Siamo
arrivati al tanto atteso, si fa per dire, momento che riguarda le varie
edizioni del romanzo. Questo argomento, dolce come un intero albero di limoni
sulla lingua, è fondamentale per comprendere il risultato finale. È d’uopo
specificare innanzitutto che le edizioni dei “Promessi Sposi” sono ben
tre. D’altronde Alessandrino ha impiegato parecchi anni per dar vita al romanzo
perfetto che tutti noi conosciamo.
In primis
troviamo il “Fermo e Lucia”, iniziato
nel 1821. La prima differenza con l’edizione finale salta subito all’occhio:
qui non c’è nessun Renzo, ma un certo Fermo. L’opera era composta da quattro
diversi tomi per un totale di trentasette capitoli. Ora non vi sto ad elencare
l’inizio e la fine delle parti altrimenti dovrò saltare la mia lezione di
pilates e non me lo posso permettere perché ho messo su qualche chiletto di cui
mi devo assolutamente liberare, vi dico solo che le varie parti corrispondono
alla suddivisione della materia narrata.
Passiamo
ad altri cambiamenti avvenuti nel corso del tempo tra un’edizione e l’altra: al
primo posto troviamo il Conte del Sagrato, che poi è l’attuale Innominato (nella
prima edizione era nominatissimo!), scendiamo al secondo posto e c’è don
Valeriano, ossia l’attuale don Ferrante, accompagnato ovviamente dalla moglie, fu donna Margherita, ora Prassede. Oltre i nomi, anche la lingua è
completamente diversa tra le due edizioni tanto che sembrano due romanzi
distinti e separati. Ultima differenza è l’ ”Appendice storica su la colonna
infame” che nei “Promessi Sposi”
diventerà “Storia della colonna infame” , un saggio storico in cui è descritto
il periodo in cui è ambientata la vicenda dei “Promessi sposi”, ponendo particolare
attenzione al processo che coinvolse gli untori
ingiustamente condannati con la falsa accusa di aver sparso il contagio della
peste a Milano nel 1630. La succitata colonna è quella che fu eretta per ordine
dei giudici al posto della casa demolita di uno dei condannati.
Poiché,
come già detto, Manzoni era un perfezionista, tra il 1823 ed il 1827, alla veneranda età di 38 anni, invece di fare
bisboccia per taverne oppure crescere la caterva di figli al cui concepimento
aveva dato un contributo, seppur minimo, si dedica ad una nuova stesura del suo
romanzo. Il primo elemento che va ad eliminare (fortunatamente per tutti noi) è
la divisione in quattro parti, creando un organismo unico e compatto che consta
di 38 capitoli. Altro importantissimo, anzi fondamentale cambiamento è il
ridimensionamento che riguarda la storia di Geltrude, ora Gertrude (grazie
Alessandro!). Anche i nomi subiscono brusche trasformazioni: Vittoria diventa
Perpetua, il dottore della legge diviene quel simpaticone di Azzecca-garbugli e
soprattutto Fermo si tramuta in Renzo.
Una
curiosità: i nomi Fermo e Renzo (per gli impreparati Lorenzo) sono festeggiati
l’uno il 9 e l’altro il 10 agosto. Che cosa carina!!
Al
1840 risale la terza rivisitazione che, fortunatamente per noi, ha ben poco a
che vedere con quella precedente. Alessandro, che ricordiamolo aveva un
disturbo ossessivo-compulsivo per la perfezione, si occupa soprattutto di
apportare modifiche alla lingua e allo stile, lui stesso definisce la revisione
linguistica sciacquatura dell’Arno:
essa ha lo scopo di avvicinare la lingua al fiorentino parlato dalla borghesia
colta (mica dai poveracci!). Alessandrino che, da buon milanese, aveva scritto
l’opera nella sua lingua d’origine, deve rivederla per intero e si mette a
studiare su libri e dizionari necessari per tradurre le parole dal milanese al
toscano perché aveva deciso che quella era la lingua che doveva essere
utilizzata in Italia. Non ci crucciamo riguardo tali sciocchezzuole che alla fine sono state solo necessarie per porre
le basi della lingua letteraria italiana e andiamo avanti.
Per
fortuna di tutti noi questa è l’ultima rivisitazione del romanzo per cui ora
passiamo a dilettarci con la Provvidenza tanto cara allo scrittore.
E’
giunto il momento di sproloquiare un po’ sulla giustizia e sulla divina
provvidenza. Non manco mai di ricordare che Alessandro era più che religioso
(sarebbe stato il pretendente perfetto per i canoni di mia nonna Maria,
ovviamente!).
Inizierei
con un argomento spinoso quanto il cespuglio di rose della regina di cuori: la
giustizia che è il motivo conduttore (ovviamente al fianco della provvidenza,
ci mancherebbe!) del romanzo. Se qualcuno avesse già letto i “Promessi sposi” avrà di sicuro notato quanto spesso lo
scrittore utilizzi il sostantivo giustizia
che compare circa un centinaio di volte.
Al
fianco della sempre citata giustizia troviamo la divina provvidenza che è
fondamentale, anzi di più, è protagonista indiscussa del romanzo. Ovviamente
non possiamo non citare la famosissima notte dell’Innominato che, grazie alla
fede di Lucia, cambia completamente sponda e da cattivone diventa semi-santo.
La frase che fa cambiare idea all’uomo è la seguente: ”Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare,
per carità mi lasci andare”. Da queste parole di Lucia che risuonano nelle
sue orecchie, l’Innominato trascorre la notte peggiore della sua vita. Questo
episodio è, in realtà, il punto di svolta del romanzo: se prima tutto sembrava
essere contro i due promessi sposi, ora le cose cambiano e si intravede uno
spiraglio di luce, solo uno spiraglio però attenzione dobbiamo tenere conto del
voto di castità di Lucia che mette in dubbio l’happy ending della storia!
Non
mi dilungo con ulteriori esempi altrimenti l’adipe che ha deciso di mettere
radici sui miei fianchi non se ne andrà mai senza la quotidiana (più o meno)
ginnastica e passiamo al prossimo argomento. (Ringraziate la mia ciccia!)
Infine
non posso non accennare alle opere che sono state il punto di riferimento del
nostro scrittore: questa è in assoluto la mia parte preferita, nonostante ciò
prometto di non dilungarmi più del necessario. Partiamo dal modello dominante,
Walter Scott (autore di “Ivanhoe”) da cui Alessandrino ha scopiazzato
soprattutto la costruzione dell’intreccio ed il taglio storico.
Piccolissima
perla di saggezza: sappiate che Walter Scott esercitò una grandissima influenza
sulla letteratura della prima metà dell’ottocento, soprattutto su un certo
Alfred de Vigny (non lo conosce quasi nessuno, lo so!). Il signor de Vigny ha
scritto un’opera intitolata “Cinq-Mars”
nel 1826, un romanzo storico ispirato al complotto che Enrico di Cinq-Mars, marchese d'Effiat,
organizzò per destituire Richelieu.
E non vado oltre. Dopo questa digressione assolutamente inutile, ma carina
(probabilmente nell’ottocento la data del cinque marzo era il titolo più gettonato
per le opere!) procediamo con i modelli di riferimento di Alessandro. Dopo il
signor Scott troviamo il superbo Daniel Defoe ed il suo romanzo “Avventure di Robinson Crusoe”, seguito a ruota da “Don Chisciotte”di Cervantes e “Tom
Jones” di Henry Fielding.
Questo
è tutto.
Voi avete letto questo romanzo? Forse è più corretto chiedere se lo avete studiato a scuola! Cosa ne pensate?
Se avete richieste di recensioni barra mini guide di altre opere non esitate a chiedere!
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