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Recensione/Mini Guida "Il fu Mattia Pascal" di Luigi Pirandello


Libro: Il fu Mattia Pascal

Autore: Luigi Pirandello

Prima pubblicazione: 1904

Copertina flessibile: 220 pagine






"Il fu Mattia Pascal”. Questo è il secondo romanzo intramontabile di cui ho deciso di occuparmi. La scelta è stata abbastanza casuale, ad essere onesta. Dovete sapere che mia madre ha il vizio di eliminare dal bagno shampoo e bagno schiuma (per cui la lettura circa la loro composizione è fuori discussione) e lasciare accanto al lavello romanzi e testi senza tempo. Questo, per ovvi motivi, mi porta a leggere libri che altrimenti non avrei probabilmente nemmeno guardato. Qualche giorno fa è stata, mio malgrado, la volta de ” Il fu Mattia Pascal”di Luigi Pirandello! Ringraziamo tutti la cara mater che ha detto di aver trovato il romanzo in un mercatino dell’usato per soli 2,00 euro. Che culo! Si fa per dire! Adesso, però, credo sia giunto il momento di addentrarci in questa storia alquanto bizzarra, ma tanto tanto carina.
E’ d’uopo innanzitutto ricordare che, a differenza di altri scrittori, Luigi Pirandello non è stato proprio sfigato sfigato, ovviamente se non consideriamo i problemi mentali della moglie Maria Antonietta Portulano, che aveva un precarissimo equilibrio psichico a causa del quale giunge addirittura a fare assurde scenate di gelosia nei confronti della povera Lietta, nickname di Antonietta, loro figlia che, mi pare scontato, abbia lasciato la casa paterna. Un altro motivo di sfiga (certo non ai livelli di Manzoni mi pare chiaro) è la partenza dei figli per il fronte durante la Prima Guerra Mondiale, ma tranquilli, torneranno alla fine del conflitto, per cui rilassiamoci!
Luigi è stato un docente ed uno scrittore di professione, non a caso nel 1943 riceve il Nobel per la letteratura. Era appassionato di teatro e di cinema, morirà, infatti, nel 1936 a Cinecittà mentre segue le riprese di un film tratto proprio dal suo romanzo ("Il fu Mattia Pascal” of course!).
Il caro scrittore è, ahimè, affetto da disturbi ossessivo-compulsivi di cui non possiamo non tener conto. Pirandello ritiene che ognuno di noi si presenti agli altri attraverso un’apparenza esterna che non corrisponde a chi sia in realtà, dimostrando di non avere alcuna pietà per l’autostima degli uomini che, probabilmente, dal suo punto di vista sono emotivamente stitici e falsi come la borsa di Gucci che ho comprato dal venditore ambulante sotto casa.
Riprende il summenzionato ipercritico pensiero dalla realtà siciliana (per chi non lo sapesse la sua città natale era Grirgenti, l’attuale Agrigento). Non posso, poi, esimermi dal citare la differenza tra vita e forma: la <vita> è un flusso continuo, un movimento; la <forma>, al contrario, fissa e spegne la forza della vita portando con se la morte. Alla luce di tale illuminante concezione semi-mistica direi che conviene dare davvero poca, pochissima importanza alla forma altrimenti rischiamo di ritrovarci in punto di morte senza nemmeno rendercene conto. Ultima ossessione leggermente macabra direi, sono i fantasmi, ma non fantasmi qualunque attenzione, si tratta degli uomini che, sopraffatti dalle maschere, diventano inafferrabili, privi di ogni consistenza e valore, per questo motivo il loro posto è preso da esseri astratti, fantasmi appunto, che condensano in sé tutta una serie di realtà psichiche, di sensazioni ed ossessioni.
L’ excursus tra le ossessioni dello scrittore era necessario perché da queste prendono forma le sue opere; proprio dai fantasmi, infatti, nasce la concezione pirandelliana del personaggio come entità distinta dall’autore (per ulteriori informazioni chiedere ai “Sei personaggi in cerca di autore” poveri sfigati!) che va alla ricerca della realizzazione e di una vita autentica nella letteratura e sulla scena. Da tutto questo nasce Mattia, personaggio-fantasma (più o meno letteralmente!). Tranquilli se non avete capito la battuta è solo perché, forse, non conoscete la storia del signor Pascal, ma rimediamo subito. 
Innanzitutto è probo dire che "Il fu Mattia Pascal” è il primo grande romanzo del caro Luigino. Fu pubblicato a puntate sulla Nuova Antologia di Roma nel 1904 e nel 1910 viene pubblicata la prima edizione integrale del romanzo.
Pirandello fa narrare in diciotto capitoli al protagonista, appunto Mattia Pascal, la sua singolare vicenda di morte e reincarnazione: dopo aver permesso ad un certo Batta Malagna (amministratore che amministra ben poco gli averi della famiglia Pascal!) di sottrarre gran parte del patrimonio alla madre, da figo tronista mancato, il povero protagonista si ritrova infelicemente sposato con una specie di arpia, Romilda (in realtà avrebbe dovuto solo corteggiare la ragazza per conto dell’amico Pomino, cosa non si fa per gli amici, ma la mette incinta ed è costretto da Batta Malagna a sposarla, ovviamente non prima di aver ingravidato anche la moglie di lui, Oliva! Complimenti per le riuscitissime prove di fertilità!). Dopo la morte delle due figlie avute da Romilda e della cara madre, Mattia decide di andare per un po’ a Montecarlo per tentare la fortuna. Con la fortuna sfacciata che si ritrova la sua famiglia (il padre aveva vinto una grande quantità di soldi alla roulette), riesce a vincere un’ingente somma di denaro. Mentre si trova sul treno per tornare a casa legge su un giornale che a Miragno, il suo paese natale, è stato trovato un corpo che la moglie ha riconosciuto come il suo. Bene, ma non benissimo!
Allettato dall’idea di non tornare, il nostro ex adone decide di rifarsi una vita e, dopo aver viaggiato per un po’, si stabilisce a Roma sotto il falso nome di Adriano Meis. Nella città eterna prende in affitto una camera dal signor Anselmo Paleari ed incontra una serie di personaggi bizzarri di cui, ovviamente, parleremo in seguito. Qui incontra e si innamora della figlia di Paleari, Adriana, ma, ovviamente la realtà non è disposta a tollerare le sue rosee prospettive in quanto non può sposare la ragazza perchè, per la società e per la legge, Adriano Meis non esiste. La geniale soluzione che la sua mente appronta per ovviare il problema è quella di abbandonare Roma e tornare a casa. Vediamo se riuscite a cogliere le modalità di eliminazione di Adriano! No?....Niente? Ve lo dico io: inscena un suicidio sulla falsariga di quello del cadavere ritrovato a Miragno. Mi pare ovvio sia l’espediente più consono!  G.E.N.I.O. In pratica ha fatto tesoro di ciò che è accaduto e lo ripropone nuovamente a suo vantaggio! Decide, poi, di tornare a casa dove, però, le cose sono cambiate ed anche molto, soprattutto perché la moglie Romilda si è risposata con Pomino (ricordate, il suo ex corteggiatore?!) e da lui ha avuto un figlio per cui Mattia decide di rinchiudersi nella biblioteca in cui aveva lavorato in precedenza arreso alla devastante certezza della sua inutile esistenza attendendo l’ultima, definitiva morte.
Dobbiamo soffermarci, un pochino lo giuro, sul romanzo di formazione in quanto "Il fu Mattia Pascal” rientra nella summenzionata categoria e per nulla al modo eviterei di tracciare un breve excursus riguardo questo genere. Innanzitutto  dobbiamo specificare la differenza tra il <romanzo di formazione> ed il <romanzo tradizionale>: il primo ha per tema l’evoluzione del protagonista, la sua educazione alla vita, il suo inserimento nella società; l’eroe del <romanzo di formazione> è in genere un giovane che va alla conquista della maturità (conseguimento che molti di noi dovrebbero provare ad ottenere!); nel <romanzo tradizionale>, al contrario, l’eroe è un uomo già formato e non ha alcun interesse nella maturazione, semplicemente va a compiere imprese.
Pirandello ha avuto l’idea alquanto bislacca di scrivere un romanzo sì di formazione, ma circolare. Che intuizione ragazzi! Mattia compie un percorso ciclico: alla fine del romanzo si ritrova esattamente dove era all’inizio, (ossia nella biblioteca di Miragno) ma svuotato di aspettative e desideri della giovinezza, a condurre la sua oramai misera esistenza. Luigino è consapevole dell’impossibilità di maturazione del personaggio e ne preannuncia la sconfitta sin dall’inizio nel capitolo intitolato proprio “Maturazione”:  In un Trattato degli Arbori di Giovan Vittorio Soderini si legge che i frutti maturano <parte per caldezza e parte per freddezza: perciocchè il calore, come in tutti è manifesto, ottiene la forza del concuocere, ed è la semplice cagione della maturezza>. Ignorava dunque Giovan Vittorio Soderini che oltre al calore, i fruttivendoli hanno sperimentato un’altra cagione della maturezza. Per portare la primizia al mercato e venderla più cara, essi colgono i frutti, mele e pesche e pere, prima che sian venuti a quella condizione che li rende sani e piacevoli, e li maturano loro a furia d’ammaccature. Ora così venne a maturazione l’anima mia, ancora acerba”,queste le parole di Mattia nello spiegare come NON sia avvenuta la propria maturazione. 
Post Scriptum: Una piccola informazione riguardo il romanzo di formazione: questo genere nasce con Goethe autore degli “Anni di apprendistato di Wilhelm Meister”, ve lo dico nel caso in cui qualcuno di voi dovesse sentire l’impellente necessità di fare una partita a Trivial Pursuit e venisse fuori una domanda sul romanzo di formazione o bildungsroman (in tedesco, lo accenno solo perché le domande del Trivial possono essere davvero bieche e ledere notevolmente il nostro amor proprio!).
Passiamo al secondo, si fa per dire, protagonista: Adriano Meis:“Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo/Ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza:-Io mi chiamo Mattia Pascal” queste le parole del protagonista che, con tutti questi scambi di identità, non sa più nemmeno quale sia il suo nome. Complimenti!
Dopo aver vinto, come già accennato in precedenza, l’ingente somma di denaro a Montecarlo ed essere venuto a conoscenza del cadavere riconosciuto come suo, Mattia decide di cambiare vita.
Fondamentale per passare a nuova vita è la scelta di una diversa identità. Il vincitore del concorso Un nuovo nome per Mattia perché sta fingendo di essere morto è Adriano Meis. E’ su un treno che il protagonista dice addio al vecchio se stesso ed inaugura il suo nuovo profilo grazie al nome gentilmente offertogli da due studiosi che stanno parlando della presunta bruttezza di Cristo e di una statua che per alcuni raffigura Gesù, per altri l’imperatore Adriano. Et voilà, il nome gli viene servito su un piatto d’argento o forse sarebbe più corretto dire sulla cabina di un treno! Passiamo al cognome: Meis è il nome di famiglia di un filosofo, un certo Camillo De Meis che sosteneva la teoria cristologica riguardo la statua. “Benone! M’hanno battezzato” dice il fu Mattia, ora Adriano.
Per evitare di essere riconosciuto (che poi chi potrebbe mai riconoscerti Mattì? Dovresti essere proprio sfigato!) taglia la barba e fa un’operazione all’occhio. Mattia era sì strabico, ma quell’occhio gli conferiva un segno di distinzione, una specie di seconda vista. Luigi lo presenta come un essere superiore perché grazie a quell’occhio può vedere ciò che gli altri non vedono. L’operazione chirurgica corregge lo strabismo è vero, ma gli fa anche perdere la propria identità senza acquisirne una nuova.
Ci troviamo a Roma dove Mattia ora Adriano si è stabilito dopo i suoi viaggi.
Al nostro protagonista accadono due fatti importanti; il primo è la sottrazione di una grossa somma di denaro da parte di Terenzio Papiano (genero di Paleari) che ruba ad Adriano la somma di denaro corrispondente alla dote di Adriana (figlia di Paleari) che vorrebbe sposare per evitare di restituire al suocero la dote della moglie defunta (anche perché ormai quel denaro è bello che andato!); il secondo è il bacio che il nostro protagonista dà ad Adriana. Entrambi i fatti sembrano un nulla ma sono importanti per lo svolgimento della vicenda. Non vi allarmate, vi dico subito di cosa si tratta così da non protrarre la vostra agonia: in primo luogo Adriano non può denunciare il furto perché, come già accennato, per la società non esiste (e sappiamo che per esporre una denuncia bisogna avere un tir pieno di documenti) ed in secondo luogo c’è il problema del matrimonio con la sua amata Adriana che “non s’ha da fare”, usando le parole di Alessandrino, per il medesimo motivo. Questo lo porta a prendere la decisione di simulare la morte di Adriano. Il primo suicidio non è stato voluto, ma ha messo fine alla vita di Mattia, il secondo, invece, morbosamente necessario, mette fine ai giorni di Adriano.
“Sì! Com’esse là, nella gola del molino, Mattia Pascal; io qua, ora, Adriano Mei…Una volta per uno! Ritorno vivo: mi vendicherò!” dice Adriano, ora nuovamente Mattia mentre sta inscenando accuratamente il suicidio del suo alter ego. 
E’ il momento di parlare dei personaggi secondari che fanno da contorno alla storia del protagonista. Oserei dire che sono fantastici: bizzarri, incoerenti, assolutamente eclettici.
In pole position troviamo il signor Anselmo Paleari: lo adoro! Sta fuori come un balcone. Il caro Paleari è un mezzo filosofo e un mezzo scienziato: addirittura quando entra in scena è rappresentato con un “turbante in spugna” perché stava lavandosi la testa calva e la barba. È pieno di passioni e manie improbabili. Innanzitutto ha un interesse smodato per la teosofia, una scienza in voga nel XIX secolo, nata con lo scopo di incoraggiare lo studio comparato delle religioni, delle filosofie e delle scienze, ma anche di investigare i poteri occulti. Il genio ha elaborato una dottrina, la laterninosofia con la quale spiega il “triste privilegio" che ogni uomo ha, la facoltà di sentirsi vivere, di prendere come realtà esterna il proprio sentimento interno della vita che è mutabile a seconda dei casi e della fortuna: tutti gli uomini hanno un lanternino che permette loro di vedere il bene, il male e l’ombra che non riuscirebbero a vedere se non avessero il lanternino.L’altra mania del signor Paleari consiste nelle sedute spiritiche. A.D.O.R.O.!!! Questo la sera invece di andare in giro a divertirsi oppure magari uscire a cercare un lavoro se ne stà con i suoi amici dentro una stanza ad evocare fantasmi!
In seconda posizione troviamo Adriana, figlia di Paleari, donna amata dal nostro protagonista. Carina lei, “piccola, bionda, dagli occhi cerulei e dolci” così ci viene descritta. Per il protagonista è un segno: “Adriana, come me! Oh guarda un po’! pensai. Neanche a farlo apposta!” queste le parole di Adriano che pare riconosca la donna, sua immagine speculare. E Adriana è proprio il femminile di Adriano, è un’ingenua, è una disadattata: come il protagonista anche lei subisce le scelte degli altri. Incarna una tipologia di donna che spesso si trova nelle opere di Luigino: quella cui sono state negate una vita affettiva e una sessualità alle quali segretamente aspira.
Lo stesso Adriano prova per lei un amore quasi paterno (niente gnac gnac per i due!). Pirandello descrive il loro amore come un colloquio di anime, sono incapaci di esprimere a gesti e parole i loro sentimenti “Le anime hanno un loro particolare modo d’intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni” scrive Luigino.
Al terzo posto (ma sul podio sia chiaro!) c’è un soggetto grandioso, la signora Silvia Caporale, una maestra di pianoforte alcolizzata che fa la medium durante le sedute spiritiche di quel talento incompreso che è Paleari. La maestrina è stata anche l’amante di Terenzio Papiano.
Troviamo poi l’unico, il solo signor Papiano, genero di Paleari, prototipo del truffatore invischiato in loschi affari che non si separa mai dal fratello Scipione, un giovane epilettico dalle dubbie capacità mentali.
Al quinto posto si piazza Romilda, moglie di Mattia: giovane e bella ma cattiva come sua madre, la vedova Pescatore. 
Ci sono tanti altri personaggi nel romanzo, ma io mi fermo qui perché devo proprio parlarvi dei modelli di riferimento del romanzo. Pirandello va a scopiazzare un po’ dai suoi predecessori. Partiamo da Honorè de Balzac che aveva una singolare attitudine, ossia quella di riversare continuamente materiali da un’opera all’altra, prelevare personaggi, abbozzare figure e situazioni che nascono o finiscono nei romanzi. Beh sappiate che Pirandello ha fatto praticamente la stessa cosa. Facciamo qualche esempio: Pinzone, educatore di Mattia, nasce in una novella “La scelta” scritta nel 1989, Mattia stesso troverà il suo compimento in “Liolà”. Riprende poi una corrente letteraria particolarmente famosa, il naturalismo, ribattezzato in Italia verismo e scopiazza dalle opere degli scrittori più in voga del momento, Verga, De Roberto e Capuana.
Poco prima della pubblicazione però Pirandello cambia strategia e decide di distanziarsi dal verismo spostando l’attenzione sul soggetto, sulla sua crisi d’identità e sulla scissione della personalità (altro che Freud!). Mattia diventa così l’eroe del dubbio, incapace di scendere a patti con la realtà. 
Va a scopiazzare giusto un po’ dal “Faust” di Goethe: non ho intenzione di fare elucubrazioni riguardo le analogie tra le due opere ricordo solo che tra i diversi travestimenti con cui il diavolo Mefistofele si presenta per indurre Faust a scendere a patti con lui c’è quello del cavaliere spagnolo. Pirandello ripete un po’ la situazione e dà vita ad Antonio Pantogata, lo spagnolo con la barbetta, descritto come il giocatore per eccellenza, irresponsabile, classica vittima del gioco d’azzardo. Lo spagnolo incarna la presenza demoniaca ovviamente.
Nel romanzo ritornano anche aspetti della tradizione romantica, onde evitare inutili tedi che sicuramente ci farebbero venir voglia di impiccarci con il nastro biadesivo, ne cito solo due: la perdita dell’immagine riflessa e quella dell’ombra. Per quanto riguarda il primo aspetto, Luigino dedica una pagina intera al tema dello sdoppiamento e della perdita di sé. È d’uopo specificare che l’oggetto impiegato per tale scopo è lo specchio: ricordiamo tutti (o dovremmo) la scena in cui Adriano guarda la propria figura riflessa mentre manifesta l’incertezza riguardo l’operazione all’occhio strabico e parla con quell’immagine come se fosse il fantasma di Mattia: “Non potendo con altri, mi consigliai con lo specchio. In quella lastra l’immagine del fu Mattia Pascal, venendo a galla come dal fondo della gora, con quell’occhio che solamente m’era rimasto di lui, mi parlò così: <<In che brutto impiccio ti sei cacciato, Adriano Meis! Tu hai paura di Papiano, confessalo! E vorresti dar la colpa a me, ancora a me….>” queste le parole che il fu Mattia rivolge all’è Adriano, manca davvero poco per il ricovero psichiatrico Mattì o Adriano, non lo so, inizio ad essere confusa anche io!
Andiamo all’aspetto numero due, ossia l'ombra, ovviamente l’episodio principe riguardo lo sdoppiamento fra Adriano e Mattia è quello in cui Adriano si aggira per le strade di Roma esasperato e stanco. Ad un tratto ha un’illuminazione ben poco divina e molto più delirante: è lui il vero se stesso e Mattia un fantasma che lo perseguita. Manca davvero poco all’internamento! Addirittura arriva un’idea se possibile ancora più rischiarante (si fa per dire!) della prima: uccidere Mattia! Ma certo Adriano, uccidiamoci, qual è il problema? Mica sei tu Mattia?! Non potranno nemmeno arrestarti, pensa che culo, sicuramente la farai franca!
Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore; e io zitto; l’ombra zitta.
L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…..
Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro. – Là, così! Forte, sul collo! /<e se mi metto a correre> pensai < mi seguirà!>. No, come può la tua ombra seguirti Adriano suvvia sii serio!
Queste le parole (in sintesi sappiatelo!) di Adriano quando tenta di uccidere la sua stessa ombra che, nel suo delirio di scissione di personalità, è Mattia. Questa scena va ricondotta al “Ritratto di Dorian Grey” di Oscar Wilde. Per chi non conosce tale, monumentale, bellissima opera di Oscar sappiate che, alla fine del romanzo, anche se, nel gioco delle probabilità conoscitive, sono più che certa vinca il film (protagonista quel figo di Ben Barnes!), Dorian pugnala il proprio ritratto, ma è l’uomo ad essere colpito e non l’immagine dipinta, tanto che il cadavere verrà ritrovato con il pugnale conficcato per bene nel petto.
Andiamo avanti. Non abbiamo ancora finito, mi spiace! L’opera di scopiazzatura di Luigino è davvero imponente, in fin dei conti ha vinto il Nobel, mi pare anche confacente al suo status una conoscenza non dico enciclopedica, ma quasi!
Nella Premessa Seconda del romanzo (sappiate che i capitoli sono tutti titolato), Mattia riflette sul senso della vita, sul senso della scrittura e dei libri e prova una sostanziale sfiducia, dovuta niente poco di meno che a Niccolò Copernico e alla sua teoria eliocentrica (per cui il sole è al centro dell’universo e la terra ruota attorno ad esso). “Maledetto sia Copernico! Quando la terra non girava, e l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità”, ma Copernico “ha rovinato l’umanità”. Ebbene sì, secondo la teoria del protagonista è stata colpa della teoria eliocentrica se l’uomo ha compreso la sua “piccolezza” rispetto all’universo. Spesso ci distraiamo dimenticando la nostra natura e sentendoci più grandi di quanto siamo. Questo bel pensiero prende vita dopo la scopiazzatura dalle “Operette morali” di Leopardi, più precisamente dal dialogo tra Copernico ed il Sole che ha ritenuto opportuno non muoversi dal centro dell’universo e costringe la terra al movimento.
Mi spiace per voi ma proprio non posso dispensarmi dallo spendere qualche parola sulla biblioteca ed i treni: sono i due altri protagonisti del romanzo per cui è d’obbligo una breve o lunga, dipende dai punti di vista, sosta su questi affascinanti temi. Innanzitutto la biblioteca. Vi starete chiedendo il motivo di tale scelta (o forse no, ma io lo elargisco lo stesso!): con la biblioteca si apre il romanzo, se vogliamo essere precisi precisi con la biblioteca in cui lavora Mattia quando è ancora un tronista figo anche se meno ricco, meno famoso e meno affascinante di quelli che si vedono in televisione. Certamente la scena più interessante che ha come sfondo la biblioteca è quella in cui Mattia e don Eligio hanno la brillante idea di mangiare sui tavoli andando, in un certo senso, a sconsacrare il luogo del sapere. Praticamente la trasformano in una sorta di taverna pascendosi di ignoranza ed assenza di etica. Complimenti vivissimi! Anni di rivoluzione ed evoluzione culturale e questo è il risultato! Passiamo al treno. Anche in questo caso, come è per la biblioteca, il treno non è solo “un convoglio ferroviario, costituito da una locomotiva e da un numero variabile di vagone” (wikipedia docet), ma anche un’icona del nuovo mondo industriale, nonché luoghi di incontri, addii. I treni ne "Il fu Mattia Pascal”, però, rappresentano anche il sogno, il cambiamento, sono la metafora della vita, di quella corsa senza soste che è il viaggio di ogni uomo verso un destino già segnato, ma (perché c’è anche un ma) il treno rappresenta anche lo spazio dei cambiamenti mentali del personaggio, delle proprie idee e del suo modo di vedere gli altri. The last but not the least, il treno è legato anche al tema della morte (in viaggio su un binario muore Mattia, in viaggio su un binario viene cancellato Adriano) e al tema della vita (in viaggio nasce Adriano, in viaggio rinasce Mattia).
Ultimo, ma non per importanza, dobbiamo proprio parlare dello strappo nel cielo di carta. 
“<Se nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.> <Non saprei> risposi, stringendomi nelle spalle. <Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo> <E perché?> <Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero sulla scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra tragedia antica e moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta>” questo il discorso tra quel filosofo di Paleari ed Adriano che stanno assistendo ad una rappresentazione del teatrino di marionette che sta mettendo in scena l’”Elettra” di Sofocle. Troviamo Oreste che, dopo aver scoperto l’omicidio del padre Agamennone da parte della madre Clitennestra e dell’amante di lei Egisto, sente il dovere di uccidere entrambi per vendicare la morte del genitore. Dopo le parole del signor Paleari, che ha sempre da ridire su tutto a quanto pare, Adriano continua a ripensare allo strappo nel cielo di carta. “<Beate le marionette> sospirai <su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente a prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato>”Questa è, di sicuro, la pagina più famosa del romanzo: in pratica quell’intellettualoide di Mattia/Adriano dice beate le marionette perché su di esse il cielo di carta on si strappa mai a mettere in dubbio la logica degli eventi. Nella tragedia di Sofocle, Oreste, senza il minimo dubbio, per vendicare l’omicidio del padre, uccide Clitennestra perché è certo del favore degli dei e dell’importanza del proprio grande destino. Quanti di noi potrebbero dire lo stesso? Il massimo di altezza del mio destino è tentare di arrivare a fine mese e contemporaneamente azzardare a prendere una laurea, oppure, in alternativa, sperare che un dio benevolo, in un momento di compassione o di eccessiva ubriachezza mi faccia casualmente inciampare nel figlio di un magnate! Lo strappo nel cielo di carta serve a spiegare il passaggio dal teatro antico a quello moderno e la condizione del personaggio romanzesco al quale non resta che la considerazione umoristica di sé stesso nell’impossibilità della tragedia.
Se sentite l'impellenete necessità di vedere il film tratto dal romanzo, sappiate che ce ne sono addirittura due, una del 1925 di Marcel L'Herbier e l'altra del 1936 diretto da Pierre Chenal.
Questo era "Il fu Mattia Pascal”, io mi fermo qui, almeno per ora! Devo assolutamente tentare di prendere la laurea (prima o poi ce la farò, ne sono quasi certa!) e soprattutto devo gettare le basi per la notifica di sfratto al mio adipe, and last but not least ho raggiunto la soglia di sopportazione massima di farneticazioni pirandelliane.


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